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Perché il vino italiano è ancora troppo debole in Cina (e cosa…

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Vino

Perché il vino italiano è ancora troppo debole in Cina (e cosa fare per cambiare)

Anche quest’anno si parla del sorpasso del vino italiano su quello francese. È successo anche poco più di un mese fa, quando sull’onda del nostro super raccolto 2015 i media generalisti hanno magnificato l’inebriante vittoria della ‘patria del vino’ e la conseguente resa degli storici competitor “nei consumi, nelle vendite, nella qualità e adesso anche nella produzione”.

È così? Ovviamente no. La pensano così i nostri amministratori? Evidentemente no, visto che lo stesso premier Renzi ha chiesto un cambio di passo al settore, chiamato ad accrescere del 50% il nostro export entro il 2020. Detto questo non è che il vino italiano nel mondo se la passi male, anzi, ma ci sono motivi per essere ottimisti e altri per esserlo un po’ meno. È questo che andremo a discutere giovedì 3 dicembre assieme a Jancis Robinson, che da decenni osserva il settore per il Financial Times, al convegno Business Strategies del Wine2wine di Verona.

Ragioni di ottimismo…

Siamo forti, più forti della media europea (Francia e Spagna in primis) e anche dei produttori ‘ex-emergenti’ (Argentina, Australia, Cile, Nuova Zelanda, Sud Africa e Usa). L’osservatorio Business Strategies-Nomisma Wine Monitor rileva infatti come negli ultimi anni (2009-2014) la performance italiana sull’export (+37,8% in valore) sia stata migliore rispetto a quella dei principali competitor, con quasi 7 punti percentuali in più rispetto alla Francia e addirittura 11 in più sulla Spagna. Inoltre, il valore dell’export prodotto dai Top 5 dell’Emisfero Sud non raggiunge quello delle nostre esportazioni, e questo la dice lunga sulla superpotenza italiana nel settore. Tra i Paesi destinazione più importanti, vinciamo in Germania (35% delle quote di mercato), Stati Uniti (32%) e Russia (27%), mentre il nostro prezzo medio è quello che – ad eccezione di Usa e Argentina – è cresciuto di più tra i principali produttori mondiali, con un tasso di crescita annuale dal 2009 al 2014 del 5,7%, il quadruplo rispetto alla media europea.

E motivi di cautela

Cresciamo, è vero ma non abbastanza per avvicinarci ai francesi. Champagne, Bordeaux, Bourgogne e altri valgono nel mondo oltre il 50% in più rispetto ai nostri vini (5,1mld contro 7,7mld). Con il Prosecco che avrà pure superato lo Champagne, ma in bottiglie prodotte e non certo in valore. Perché con questo parametro lo sparkling francese batte le pur ottime performance del Prosecco per 6 a 1. E, a proposito del valore, il prezzo medio dei nostri prodotti rappresenta l’emblema dell’ambivalente modo di vedere il bicchiere: è cresciuto più degli altri ma vale meno della metà di una bottiglia francese (3,33 euro, contro 7,10) ed è più economico anche dei vini della Nuova Zelanda e di quelli statunitensi. Se a ciò si aggiunge la rinnovata competitività dei produttori del ‘Nuovo mondo’, registrata nei primi 8 mesi di quest’anno specie sui mercati a domanda emergente, allora il bicchiere mezzo pieno assume ben altra prospettiva

Il gap da colmare

La Cina e il Far East. Partiamo da un dato di fatto: Usa, Germania e Gran Bretagna da sole corrispondono al 60% dell’export dei nostri vini mentre i primi 5 Paesi asiatici ovvero Cina, Giappone, Hong Kong, Corea del Sud e Singapore insieme fanno meno del 5% sia in valore che in quantità. Belgio e Austria importano il nostro vino più della Cina. L’alta redditività prospettica rimane quindi in Cina solo molto prospettica: siamo tornati – come rileva il nostro osservatorio – alla quota di mercato di 10 anni fa. Un 5% che grida vendetta se dal basso della nostra quota assistiamo al dominio francese anche nei primi 8 mesi di quest’anno (44%) e all’escalation australiana (22%, contro il 17% del 2014), favorita dal Free trade agreement. Ci doppia anche il Cile (11%) e, da quest’anno, subiamo il sorpasso spagnolo (6%).
Il viceministro Calenda con delega al mercato estero ha fortemente criticato le modalità della promozione effettuata in favore del nostro wine&food, bollando le iniziative regionali come ‘uno spreco di soldi pubblici’. Ha ragione, i wine tasting fine a se stessi e organizzati in qualche lussuoso hotel di Singapore o Pechino da soli non hanno efficacia. Prima di tutto occorre quello che è mancato sino ad oggi (a noi, non certo alla Francia), ovvero una volontà politica che crei le condizioni macroeconomiche positive per fare business. Il viceministro Calenda giovedì scorso – come riportato dal Sole 24 Ore – ha annunciato una prima importante e imminente risposta al bisogno. Ma la nuova mission ‘no profit’ di promozione del vino Made in Italy va integrata anche con le azioni di presenza da parte dei privati, in primis attraverso una migliore pianificazione delle misure comunitarie di promozione: il traino della nostra ristorazione, un diverso modo – più orientale – di organizzare il packaging, le etichette e i nomi dei prodotti, una cabina di regia sul brand Italia che coordini le missioni di aggregazione di privati.

Serve anche muoversi bene presso flussi di comunicazione in cui la nostra presenza è assolutamente marginale. La Cina è un mercato composto in prevalenza da giovani consumatori, dove l’utilizzo dei social media è molto più alto del nostro. È necessario quindi raggiungere i consumatori nei canali che utilizzano quotidianamente, come Wechat, dove si fanno gli inviti alle degustazioni, si parla di vino, si fanno offerte; o lavorare in modo certosino sul marketing verso il canale ‘privati’, con eventi e creazione di data base con centinaia di winelover ai quali rivolgersi direttamente per la vendita dei vini.
Nell ‘incontro con Jancis Robinson, un confronto a tutto campo che metterà in rilievo, anche alla luce degli errori del passato, i punti di forza e di debolezza dell’approccio internazionale del sistema vino italiano .

*Silvana Ballotta è Ceo di Business Strategies

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