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Roberto Petza: così vi faccio scoprire com'è buona la carne…

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Storie di eccellenza

Roberto Petza: così vi faccio scoprire com'è buona la carne di pecora

«Bisogna guardarsi attorno e capire, cosa si può fare con ciò che si ha a disposizione». E’ tutta qui, in queste poche parole la filosofia di Roberto Petza. Lui si definisce cuoco, non ama essere chiamato chef ed in questo esprime tutta la forza della sua terra, quella Sardegna, capace di togliere tanto, ma di offrire più di quanto si possa immaginare. Una forza, una filosofia che Roberto Petza ha trasformato nella sua ragione di vita, umana, imprenditoriale e gastronomica. La sua è una storia come ce ne potrebbero essere tante nel nostro paese. La differenza, però, tra la sua ed un’altra storia qualunque, sta nella sua voglia di crescere, di far bene, nella sua capacità di saper affrontare le difficoltà, anche quelle che non avrebbe mai immaginato di dover affrontare, e di superarle.

«Da ragazzino volevo fare il falegname, così come avevano fatto tutti gli uomini prima di me nella mia famiglia. Mio nonno però fece in modo che mia madre scegliesse di mandarmi a scuola. Lei mi iscrisse alle magistrali, io optai per l’istituto alberghiero. Ho sempre amato mettere le mani nelle cose, chissà, forse allora la vedevo come un surrogato della falegnameria. E comunque pensai che alla scuola alberghiera avrei imparato un mestiere e avrei potuto entrare fin da subito nel mondo del lavoro. Quegli anni tra i banchi sono stati importanti, ma non sono stati tutto».

Cosa vuol dire?

Quello che ho imparato dopo ha fatto di me quello che sono oggi. Finita la scuola avevo due alternative: trovare un posto di lavoro vicino casa, in un ristorante, in una pizzeria, o allontanarmi dalla mia Sardegna e fare esperienza lì dove avrei potuto trovarla. Ho fatto le valigie e sono partito. La Corsica, poi Parigi, Londra, La Spagna, il nord della nostra Penisola, la Svizzera. Ho peregrinato in lungo ed in largo in Europa ed ho fatto di tutto.

Non ho avuto grandissimi maestri in questo mio percorso di crescita professionale, tuttavia ho cercato di prendere il meglio da ogni posto in cui mi sono fermato. Non sempre sono stato in cucina. Ho fatto lo sguattero, il lavapiatti, il cameriere. Ogni volta un lavoro diverso all’interno dei ristoranti, ma ogni volta cercavo qualcosa di meglio rispetto a ciò che mi ero lasciato alle spalle.

E il sogno nel cassetto? Cera un sogno nel cassetto?

Certo che c’era ed animava il mio spirito di sacrificio. Più che un sogno era un obiettivo: sarei tornato in Sardegna, a casa, ed avrei aperto un ristorante tutto mio. Mi ero dato anche un tempo per farlo: i miei trent’anni. Così ogni tappa del mio girovagare diventava una tappa di avvicinamento a ciò che volevo ottenere, realizzare, raggiungere. In questo modo tutte le esperienze professionali aggiungevano un tassello alla mia capacità di poter gestire il progetto che avevo in mente di realizzare. Proprio perché avevo chiaro tutto questo, davo ad ogni passo il giusto valore. Ad ogni nuovo datore di lavoro non ho mai chiesto “quanto mi dai…”, a differenza di quanto accade alla maggior parte dei giovani di oggi che guardano più al ritorno economico che all’esperienza che possono accumulare. Io lavoravo, imparavo e, dopo qualche tempo chiedevo “quanto valgo?…”. Era questo il mio approccio.

Il ricordo più importante?

L’incontro con Stefano Arrigoni, il patron de L’Osteria della Brughiera a Villa D’Almè, vicino Bergamo. Lui mi ha fatto comprendere l’importanza delle materie prime, di cui è un gran conoscitore. Mi ha trasmesso il gusto per il bello, per il buono, per le cose fatte bene, per il gusto di far bene le cose. Per me è stato un mentore. Ecco se devo qualcosa a qualcuno, oltre che a me stesso, lo devo a lui.

E poi il ritorno a casa?

Nel 1998 ho aperto il mio ristorante a San Gavino Monreale. Avevo trent’anni ed avevo raggiunto il mio obiettivo. Avevo trasformato i locali di un ristorante che già esisteva e l’ ho chiamato S’Apposentu. In Sardegna il s’apposentu è la stanza buona della casa, quella in cui si invitano gli ospiti, quella in cui si tengono le cose preziose: è il salotto buono. Ed io ho voluto che il mio ristorante fosse come la mia casa. Ho voluto che gli ospiti si accomodassero nel mio salotto buono, tra cose semplici ed accoglienti, tra i libri che amo. Anch’io avevo finalmente pensato di aver trovato casa, ed invece…

Invece cosa è successo?

Il locale aveva una sala molto grande, ma delle cucine piccolissime in cui non riuscivo a lavorare. Il proprietario della struttura non volle che io la trasformassi e così, anche se a malincuore sono stato costretto a cambiare, a ricominciare a girovagare. Trovai un’altra location in paese, ma in comune non vollero darmi le autorizzazioni per trasformarla in ristorante. Così dovetti andar via da San Gavino. Il mio nuovo S’Apposentu l’ho aperto all’interno del Teatro Lirico di Cagliari. Era quella la mia nuova casa. Lì, seppure con tutte le difficoltà dettate dalla convivenza con il teatro, nel 2006 ho ricevuto la stella dalla Michelin. In realtà di stelle quell’anno ne arrivarono due, visto che nel 2006 è nato anche mio figlio. Ma anche a Cagliari le cose non andarono per il verso giusto. Fu un periodo che dimenticherei volentieri. Ci furono contrasti con le amministrazioni. Fui costretto a chiudere il ristorante e per me fu una mazzata tremenda, sia dal punto di vista morale che finanziario. Mi sembrava di essere stato catapultato fuori dal mio mondo, mi cancellarono anche dai giovani ristoratori d’Europa. Rimasi fermo per due anni. Eppure quella è stata la cosa migliore che potesse capitarmi.

In che senso?

Se non avessi chiuso a Cagliari non avrei realizzato il mio S’Apposentu. Ora è una vera azienda, con 12 dipendenti, in una zona, quella del comune di Siddi, un piccolissimo centro di poco più di 600 anima in Marmilla, dove non esiste economia. Noi, invece siamo un’azienda votata allo sviluppo, che si sta integrando con il territorio, con i produttori locali, e stanno crescendo e ripartendo anche loro. Ho creato una scuola, dove faccio due corsi l’anno per un totale di circa 30 ragazzi che vengono da noi da tutto il mondo, una scuola il cui obiettivo è quello di trasformare gli allievi negli ambasciatori del territorio da cui provengono, perché in ogni zona del mondo c’è sempre un’eccellenza gastronomica da valorizzare. Il ristorante e la scuola sono diventati un corpo unico, si trainano a vicenda e vivono della mia filosofia integralista di voler fare cose buone con i prodotti che la terra ci mette a disposizione rispettandone anche la stagionalità. Questa è quella che io definisco cucina esotica: utilizzare un prodotto unico, che hai solo tu e riuscire ad esprimerlo in maniera eccezionale. Trasformiamo il latte, facciamo i salumi, abbiamo il nostro orto ed utilizziamo sempre ciò che la stagione ci offre: cambiando i prodotti, cambiano anche i nostri piatti, a seconda del periodo in cui si mangiano. E i clienti vengono da noi e rafforzano le scelte che abbiamo fatto, la direzione che abbiamo preso.

E il prodotto che preferisce?

Non ho dubbi: la carne di pecora. E’ una carne straordinaria, versatile, nutriente, sanissima e molto digeribile. Bisognerebbe sfatare il mito della sua pesantezza, mentre invece non lo è affatto ed è delicatissima. Essendo un prodotto locale, la uso tantissimo. E’ una materia unica nel suo genere che andrebbe valorizzata molto più di quanto non si faccia.

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