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Probiotici appesi a un filo: la Ue potrebbe vietare anche in Italia…

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Probiotici appesi a un filo: la Ue potrebbe vietare anche in Italia l'indicazione in etichetta

Per la sopravvivenza dei proibitici tutta l’Europa guarda all’Italia, ma è ancora fumata nera in Commissione europea per l’utilizzo del termine in etichetta. E’ ormai appesa a un filo, anzi a un pronunciamento dell’Unione europea sulla posizione italiana, la possibilità di continuare a commercializzare col nome di “proibiotici” i latti fermentati ormai sospesi da oltre un anno. E lunedì scorso il gruppo di lavoro sui claim, formato da Commissione europea ed esperti degli Stati membri, si è riunito per discutere la questione del descrittore generico per i probiotici – richiesto prima dall’Italia, e poi dal Regno Unito -, senza però pervenire ad una decisione definitiva. Ma fonti interne alla CE precisano che, anche se la richiesta italiana venisse accolta, questa varrebbe solo per l’Italia (o per il Regno Unito), secondo un meccanismo di compromesso piuttosto dubbio e che potrebbe frammentare il mercato. L’orizzonte cui tendere resta sempre quindi quello di una norma europea sui probiotici, che ancora non c’è. Ma vediamo di ricapitolare la vicenda

Probiotici spariti dall’etichetta nel 2006

In mancanza di evidenze scientifiche rispondenti ai criteri dell’Ue, nel 2006 la normativa europea stabilì che il termine “probiotico” dovesse sparire dalle etichette degli integratori in Europa (reg. CE 1924/2006). La motivazione era che il consumatore, associando la parola a uno specifico effetto benefico, potesse essere tratto in inganno. Al punto che l’Efsa in seguito bocciò la quasi totalità delle indicazioni sugli effetti specifici dei probiotici per la salute utilizzate dalle aziende produttrici (reg. 432/2012). Un colpo enorme per l’industria, cui seguirono anche pesanti sanzioni per pubblicità ingannevole.

Italia fuori dal coro

Solo l’Italia prese una posizione diversa, rafforzata dalla compilazione di un apposito regolamento ministeriale che ne ha definito le linee guida: la parola “probiotico” può essere usata sull’etichetta di integratori e alimenti solo se i batteri appartengono a ceppi usati tradizionalmente per integrare la microflora intestinale e sono caratterizzati geneticamente, se sono attivi nell’intestino e presenti in quantità tale da moltiplicarsi, se ne sono dimostrati sia la sicurezza per l’uso umano, sia i benefici ottenibili. Necessario anche indicare i ceppi batterici presenti, oltre alla quantità di cellule vive per ciascuno di essi.

Tutti fattori che, se rispettati, contribuirebbero a un generico “equilibrio della flora batterica intestinale”. Un claim che lascia un po’ il tempo che trova, visto che non è possibile definire quale sia il corretto equilibrio della flora intestinale né quanto questo equilibrio favorisca la salute. Ma tant’è, da una parte il ruolo difficilmente confutabile del beneficio apportato, dall’altro l’appellarsi all’uso tradizionale del termine, ovvero di descrittore generico (sostenendo che da noi la parola probiotico è usata da oltre 25 anni e quindi paragonabile a termini come “acqua tonica” o “biscotti digestivi”, a cui i consumatori non associano più un significato “curativo”, ma servono solo per indicare una categoria di prodotti e pertanto utilizzabili senza basi scientifiche), è bastato al nostro Paese per chiedere un’esenzione, cui si è subito associato il Regno Unito che chiesto l’annullamento del quadro attuale dei claim europei.

Il business in Italia è il 50% di quello europeo

Questo accadeva l’estate scorsa e da allora nulla o quasi si è più mosso, nemmeno durante il semestre di presidenza italiana, sul quale molte aziende e multinazionali riponevano le speranze per ridare fiato a un mercato bloccato da troppo tempo e invece con ampie possibilità di ulteriore sviluppo.

In questo scenario l’Italia gioca, quindi, davvero un ruolo importante, non solo per la sua presa di posizione, da alcuni definita un semplice escamotage, ma anche per il peso che il business nostrano rappresenta nel mercato, sfiorando da solo quasi il 50% del totale europeo.

Nel frattempo la ricerca, soprattutto a livello pubblico, continua nell’attesa che prima o poi venga approvata dall’Efsa una qualche autorizzazione scientifica o che almeno le motivazioni italiane siano accolte, per poter continuare a utilizzare il termine e dare nuovo slancio alle vendite. “Il principale problema – spiega Luca Bucchini, partner di Hylobates Consulting, società specializzata nella valutazione dei rischi, consulenza scientifica e normativa nel settore alimentare e cosmetico – deriva dal fatto che la normativa europea richiede prove mutuate dai processi della chimica di sintesi, dove è possibile tracciare con sicurezza con quali altre una molecola va a interagire. Quando si parla di organismi viventi, quali sono i lattobacilli contenuti nei probiotici, è tutto più complesso. Ci sono migliaia di interazioni da valutare. La speranza è che si apra un dibattito per arrivare a una norma specifica sui probiotici che al momento manca. Una soluzione politica che consenta all’industria di trovare le risorse per continuare la ricerca”.

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