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Torna in Europa il vero manzo di Kobe (e Tokio pensa a un export da 250…

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Torna in Europa il vero manzo di Kobe (e Tokio pensa a un export da 250 milioni di dollari)

Quest’estate un numero maggiore di italiani è andato in vacanza in Giappone, almeno secondo i primi dati informali, incentivati dall’euro forte sullo yen e dall’evaporazione quasi completa dei precedenti timori relativi alla crisi nucleare del 2011. Tra le “esperienze” che si sono portati a casa, c’è anche lo shabu-shabu con la carne di Kobe, che in pochi secondi passa da cruda a cotta quando immersa nell’acqua bollente insaporita da molti vegetali. E quasi si scioglie in bocca tanto è tenera.
Questa esperienza, da qualche settimana, può più o meno essere replicata in Europa, visto che da poco è stato tolto il divieto all’import nella Ue di carne bovina giapponese, che era stato introdotto dopo lo scoppio di una epidemia simile a quella della “mucca pazza”.

Obiettivo vendite per 250 miliardi di dollari entro il 2020

La prima spedizione è arrivata in Europa il 9 luglio scorso e in un mese, secondo le statistiche del ministero delle Finanze giapponese, l’export in Europa di wagyu (letteralmente: carne bovina giapponese) ha raggiunto un valore di 20 milioni di yen: il governo di Tokyo intende aumentare le esportazioni di wagyu a un ammontare di 25 miliardi di yen entro il 2020 (circa 250 milioni di dollari). Non sono obiettivi troppo ambiziosi, visto che l’offerta è relativamente limitata e si inserisce nel segmento “premium”: il target è uno di quelli di punta nello sforzo governativo di raddoppiare il totale dell’export agroalimentare nipponico entro cinque anni. Una serie di eventi promozionali si sono tenuti in vari Paesi europei, coinvolgendo chef famosi come Pierre Gagnaire e Phillip Mille in Francia e Steffen Hensler in Germania.

Solo fantasie sul massaggio con la birra

Una preoccupazione giapponese riguarda il fatto che nella Ue la carne che viene pubblicizzata come “wagyu” o “Kobe beef” spesso non è di provenienza nipponica, ma arriva soprattutto dall’Australia o da altri Paesi come la Spagna, dove si allevano manzi con caratteristiche simili a quelle dei capi allevati nel Sol Levante. Il messaggio che le autorità giapponesi vogliono veicolare è che la vera carne di Kobe è solo “made in Japan”: dalle tecniche di allevamento e di alimentazione fino al clima nasce un prodotto unico che non è davvero imitabile. Probabilmente ha una ampia componente di mito il luogo comune secondo cui i bovini in Giappone vengano accuratamente massaggiati con la birra fin dalla più giovane età o accarezzati da musiche scelte per poter produrre la carne più tenera e gustosa. Ma certo conta che i capi vengano allevati con la massima cura nell’alimentazione e con un serio rispetto complessivo, e non, come purtroppo accade spesso dalle nostre parti, considerati solo come potenziali generatori di profitti e confinati in spazi ristrettissimi.
Dal canto suo il Giappone ha rimosso da poco il bando all’import di carne da alcuni Paesi europei, anche come atto di buona volontà nel quadro dei negoziati in corso per arrivare a un accordo di libero scambio bilaterale con la Ue. Ma continua a non riconoscere alcuni additivi alimentari normalmente approvati a livello internazionale.

Le pressioni degli Usa

Le preoccupazioni per la tutela del “marchio” della Kobe beef può aiutare i giapponesi a rendersi conto di quanto importante sia, per gli europei e per tutti, il riconoscimento di tutele specifiche e rigide come le Indicazioni geografiche tipiche. Un problema è che il Giappone sta negoziando un analogo accordo di libero scambio con gli Stati Uniti nell’ambito della Trans-Pacific Partnership: secondo indiscrezioni, i negoziatori americani hanno raccomandato ai giapponesi di non cedere su tutte le richieste europee in proposito. Perché sono in corso anche analoghe trattative di free trade agreement tra Usa e Ue. E Washington ha le sue forti resistenze verso i desiderata europei in tema di tutele dell’originalità dei prodotti.

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