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Il manzo di Kobe? Adesso si alleva in Lombardia

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Il manzo di Kobe? Adesso si alleva in Lombardia

Basta pellegrinaggi in Giappone o investimenti da capogiro per gustare una costata, presto agli appassionati del lusso a tavola basterà recarsi in Lombardia per assaporare il pregiato manzo di razza wagyu. Animale diventato quasi leggendario per le particolari pratiche di allevamento – dai massaggi quotidiani, al sake nell’alimentazione – è più conosciuto come il manzo di Kobe, dal nome dalla città nipponica che lo ha fatto conoscere al mondo intero. Non è leggenda invece il livello straordinario della carne, quasi priva di colesterolo e ricca di vitamine, dovuto alla quantità di grasso intramuscolare, la cosiddetta marezzatura, che in un bovino comune arriva al 3% e nel wagyu al 10 per cento.

Altra particolarità è che si tratta di grassi insaturi, che conferiscono a questa carne sapore e tenerezza eccezionali. Chiaramente il valore di questa carne è molto alto: in Giappone un manzo di Kobe allevato in maniera tradizionale viene venduto sul mercato interno al prezzo medio di 300 euro/Kg peso vivo. In Italia, i prodotti di animali allevati – sebbene con tecniche meno sofisticate – in Nuova Zelanda, Stati Uniti e Argentina -arrivano al mercato dell’alta ristorazione a prezzi dell’ordine di 90-110 euro/Kg di carne per i tagli più pregiati.

Il wagyu all’italiana

Ora un progetto di filiera tutto lombardo ha portato a far nascere e allevare il wagyu in provincia di Milano, dove si concentra l’80% del mercato italiano. Ideato da Ernesto Beretta, ricercatore dell’Università degli studi di Milano e finanziato da Camera di Commercio e Unioncamere Milano (circa 45mila euro), è stato avviato nel 2007 dalla Fondazione Ferrazzi e Cova e dall’istituto agrario di Villa Cortese (Milano), dove sono nati i primi capi. E oggi si contano 14 vitelli di pura razza ottenuti dopo quattro anni di lavoro. “Non abbiamo potuto ottenere direttamente dal Giappone gli embrioni – puntualizza Beretta – perché dalla fine degli Anni ’90 sono state fermate le esportazioni di questa razza. Dai nostri primi animali di razza pura, comunque, abbiamo potuto ricavare altri 50 embrioni e 210 fiale di liquido seminale per continuare l’allevamento. I soggetti in possesso della Fondazione Ferrazzi e Cova, infatti, sono tra i migliori in Europa come valori genetici e come morfologia”.

La produzione arriverà a 200 capi per anno

Il primo wagyu “lombardo” a finire sulle tavole dei gourmet è stato un toro di due anni di quasi 900 chili che negli ultimi quattro mesi ha mangiato 10 chili di alimenti al giorno: fiocchi di mais, avena, favino, farina di mais e semi di lino. “E’ un wagyu puro, razza Tajima – spiega Beretta – anche se le tecniche di allevamento devono ancora affinarsi per ottenere una carne perfetta. La nostra è stata una scommessa, tanto che abbiamo lavorato tutti praticamente gratis, ma c’è ancora molto da fare”.
Grazie all’azienda Ripamonti Carni di Oggiono (Lc) la carne sarà messa sul mercato. “Ci occuperemo – dichiara Vittore Ripamonti, uno dei titolari – della macellazione dei bovini e del loro sezionamento, ma anche di giudicare il livello di finissaggio del prodotto. Come ogni cosa che inizia i margini di miglioramento sono ampi, ma la filiera è stata avviata e, d’accordo con gli allevatori della zona, continueremo la produzione per realizzare circa 200 capi all’anno da riservare a una filiera dedicata e molto selezionata”.

Acquisto in gruppo del capo intero

Tra i destinatari – come Salumificio Bordoni in Valtellina per le bresaole e la brianzola Alimentari Radice per gli elaborati – si è già fatta avanti l’associazione Slow Cooking, che raggruppa 13 ristoratori lombardi e che opera secondo il principio di promozione, sostegno e recupero delle produzioni legate al concetto di alimentazione sana, etica e sostenibile.
“La nostra associazione – afferma Claudia Crippa, titolare dell’agriturismo La Costa di Valetta Brianza (Lc) – crede molto in questo progetto, tanto che ha aderito da subito. Al di là dell’indubbia qualità della carne, ci rassicura la genuinità del prodotto e la filiera molto controllata: ogni animale è rintracciabile tramite microchip Rfid e gli allevatori utilizzano pratiche di sostenibilità ambientale. L’idea che abbiamo lanciato agli altri ristoratori è quella di formare dei piccoli gruppi di acquisto per suddividerci in parti eque ogni capo”. I bovini di wagyu, infatti, sono più grandi rispetto alle altre razze e sarebbe impossibile per un singolo ristorante gestire un capo intero.

“La nostra idea – prosegue Crippa – serve anche per contenere i prezzi: acquistando l’intero bovino il prezzo al chilo scende. Inoltre, facendo un mix di parti nobili e meno nobili si può contenere il costo intorno ai 30 euro/kg”. Una bella differenza rispetto ai prezzi correnti per un piatto di manzo di Kobe. “Sta poi all’abilità dello chef – puntualizza – saper valorizzare anche i tagli considerati meno pregiati, ma di certo non meno buoni e saporiti”. E proprio gli chef, non a caso, avranno un ruolo fondamentale. “Il vantaggio di questo progetto – spiega Marco Mori, detto “Il Morris”, chef della Costa cresciuto nella scuola di Stefano Masanti – sta anche nel rapporto diretto tra allevamento, macello e chi cucina, fondamentale per migliorare la qualità, poiché anche noi chef al momento della preparazione possiamo segnalare le eventuali criticità e dove intervenire per aiutare a ottenere un prodotto migliore”.

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