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Dna traced, il marchio della discordia che sigilla il vitigno

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Dna traced, il marchio della discordia che sigilla il vitigno

Dna traced. Un semplice sigillo stampigliato sulle bottiglie di vini monovarietali (Sangiovese in testa, quindi Brunello di Montalcino) ha infiammato una guerra di religione degna delle divisioni tra guelfi e ghibellini. I fatti. Una ricercatrice dell’università di Siena, Rita Vignani, attraverso una spin-off dello stesso ateneo, la Sergé-genomics, pubblica nel 2012 uno studio sull’American journal of enology and viticulture. Cosa dice la ricerca? Storie non certo esaltanti come la Brunellopoli del 2008 (un vino che secondo il disciplinare dovrebbe essere in purezza, quindi monovarietale, e invece alcuni produttori rinvigorivano con Merlot o Montepulciano d’Abruzzo) sarebbero stroncate sul nascere se solo si sottoponessero i vini all’esame del Dna. Il meccanismo è uguale a quello utilizzato per risalire agli omicidi, con un margine di precisione del 97 per cento. Nel nostro caso basta confrontare una goccia del vino imbottigliato con il Dna del vitigno in questione. Per scoprire senza margini di dubbio se si tratta di un vitigno monovarietale o no.

Una banca dati dei vitigni

La Vignani nel corso del tempo ha creato una banca dati in cui sono stati mappati oltre 250 vitigni. Le ricerche vanno avanti dal 2006 e, dettaglio non trascurabile, a partire dal 2009 sono state finanziate con oltre 150mila euro dal Ttb (The alcohl and tobacco tax and trade bureau), l’agenzia doganale del Tesoro Usa che regola l’entrata degli alcolici negli States. Gli americani hanno scelto la Vignani e l’ateneo senese dopo una gara a evidenza pubblica, com’è giusto che sia quando si maneggiano soldi pubblici.

Meglio Dna o profili antocianitico?

La storia poteva finire qui, con tanto di applauso alla ricercatrice toscana che si è distinta in questa alleanza transoceanica tra Siena e Washington. E invece qualcuno lancia il guanto di sfida. I padrini della parte avversa alla Vignani sono gli scienziati della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige. Il profilo antocianitico dei singoli vitigni – dicono i trentini – è di gran lunga più affidabile dell’esame del Dna. La Vignani viene sottoposta a un vero e proprio interrogatorio, come se la ricerca pubblicata sulla rivista scientifica americana equivalesse a un articolo su una gazzetta qualsiasi. Non se ne viene a capo, nel senso che ognuno difende la sua idea.

Il marchio Dna traced

Al consorzio del Brunello, 220 soci, si susseguono riunioni su riunioni senza trovare la quadra. Fino a quando una mezza dozzina di produttori si dissocia dalla falsa unanimità. Il primo a rompere gli indugi è Giacomo Bartolommei dell’azienda Caprili, fondata da nonno Alfo nel 1965, 30mila bottiglie di Brunello e altrettante di Rosso di Montalcino, il 40% delle quali esportate negli Usa: «Il marchio Dna traced è stato accolto molto bene sul mercato americano» dice Bartolommei. A ruota seguono Gianfranco Soldera di Case Basse e Francesco Marone Cinzano di Col d’Orcia, che dice: «A me bastano e avanzano le prese di posizione di istituzioni autorevoli come il Ttb americano e gli studi scientifici dell’università di Siena». Una pratica che si sta allargando anche alla Valpolicella, dove l’architetto Giorgio Sboarina, proprietario della tenuta Costa degli Ulivi (20 mila bottiglie di Amarone biologico e 40mila di Valpolicella) ha chiesto e ottenuto dalla Sergé-genomics la certificazione di Dna traced. Spiega Sboarina con la disarmante franchezza veneta: «Il test del Dna, che nel mio caso attesta il plurivitigno, Corvina e Rondinella, è un’arma dei piccoli contro il gigantismo delle cantine sociale e dei grandi produttori, ormai padroni indiscussi del campo. In Valpolicella come a Montalcino l’interrogativo è sempre lo stesso: conta più il vino o il fatturato? Io sto dalla parte del vino».

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