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Dal vino biodinamico di Monte Athos al mosto solidale in Palestina: i monaci in cantina

Si colloca a metà strada tra leggenda e realtà la storia di Pierre Pérignon, monaco benedettino del XVII secolo, cellario presso l’abbazia di Hautvillers nella regione dello Champagne a cui molti attribuiscono l’invenzione del vino con le bollicine più famoso nel mondo. C’è chi sostiene che – pur essendo astemio – il suo palato fosse talmente raffinato da intuire la provenienza delle uve all’assaggio di un singolo acino. C’è invece chi ipotizza che la creazione del metodo champenoise non sia il frutto di una brillante intuizione, ma la conseguenza di un errore nella fermentazione, che Dom Pérignon avrebbe cercato di correggere per tutta la vita.

L’abbazia di Hautvillers dove visse Dom Pérignon

Non si tratta certo di un caso isolato: da sempre gli ecclesiastici hanno dimostrato una notevole maestria nella preparazione di vini, distillati e prodotti alimentari artigianali di ottima qualità.

Tutti i profitti in beneficienza

Spetta ai Cistercensi della Stretta Osservanza – meglio conosciuti come Trappisti – dell’abbazia belga di Notre Dame di Scourmont a Chimney il merito della produzione dell’omonima birra, una delle più famose tra le etichette prodotte nei conventi. Non è semplice guadagnarsi la certificazione ATP – Autentico Prodotto Trappista – che deve rispettare precisi dettami. Occorre prima di tutto che la produzione sia interamente realizzata nell’ambito dell’abbazia, direttamente da monaci o sotto il loro controllo diretto. Alla comunità monastica compete inoltre qualunque decisione relativa a produzione e gestione, e i profitti devono avere come unico fine le opere di beneficenza e il sostentamento dell’ordine.
Sono solo 11 in tutto il mondo i monasteri in possesso di questa certificazione. In Italia la birra trappista porta il nome dell’abbazia romana delle “Tre Fontane”. I trappisti, oltre che per la birra sono rinomati per i formaggi e i prodotti dell’alveare.

Nulla ha da invidiare ai colleghi uomini ed è riuscita a far parlare di sè e della sua produzione l’ultima, ahimè, braumeister di un convento europeo. Da quasi mezzo secolo Sorella Doris Engelhard – Francescana dell’abbazia di Mallersdorf, in Germania, dove con la birra non si scherza – alla domenica si sveglia di buon mattino, è esentata dalle preghiere, e comincia a brassare. Quello è uno dei modi con cui glorifica Dio. E’ l’unica delle consorelle a dedicarsi, oltre che alle opere di bene, ai piaceri mistici della sala di cottura. Nonostante la produzione annuale abbia numeri modesti (che si aggirano intorno ai 3.000 ettolitri) vi capitasse una gita in Baviera potrebbe valere la pena fare una sosta per assaggiarla.

Vini biodinamici sul Monte Athos

Tra le alture del Monte Athos, territorio governato dai monaci ortodossi ove ancora oggi – fatta eccezione per i gatti – è interdetto l’accesso a qualunque essere vivente di sesso femminile, Padre Epifanio si dedica alla produzione di un altro nettare divino.
Fin dal suo arrivo, nei primi anni 70, al monastero di San Paolo, iniziò a lavorare nei vigneti. Ma fu negli anni 90, trasferitosi a Milopotamos, cominciando da una piccola vigna di soli 50 acri, che si consacrò a resuscitare una tradizione che in quel luogo vantava una storia ultra millenaria, e nel 1996 vide la luce la sua prima etichetta.
Da allora ne è stata pigiata di uva nei tini e oggi il frutto di quelle vigne sono vini biologici – alcuni prodotti con metodo biodinamico – di cui Padre Epifanio si occupa attivamente, non solo seguendone la produzione ma anche la promozione.

L’uva della Casa Salesiana di Cremisan

Il mosto solidale in Palestina

Sorge invece tra Betlemme e Gerusalemme nei pressi del villaggio di Beit Jala, in una terra che pur essendo Santa sembra non trovare mai la pace, la Casa Salesiana di Cremisan, costruita nel 1885 sulle rovine di un monastero bizantino. Per decenni la produzione dei vini di Cremisan è stata caratterizzata dall’unione tra le uve provenienti dai vigneti dei salesiani con quelle degli agricoltori palestinesi. Quando le conseguenze delle intifada hanno reso sempre più complicata per i contadini la consegna dell’uva, sono venuti in soccorso della cantina i frutti di un’altra vigna salesiana, quella di Beit Gemal, verso la piana di Tel Aviv.
I discepoli di Don Bosco non si sono persi d’animo, hanno unito le forze. Continuano a lavorare negli anni, nonostante lo spettro di un muro incomba, in senso tutt’altro che lato, sulla tranquillità delle loro vigne. Insieme – salesiani e palestinesi – si sono rimboccati le maniche, aggiungendo al sapore del prodotto finale il gusto della solidarietà. Gli obiettivi sono importanti: continuare la riqualificazione del territorio e della cantina, salvaguardando tanto le specie vitigne autoctone quanto i posti di lavoro per la popolazione locale, senza perdere di vista il fine ultimo di produrre introiti destinati a tutte le attività dei Salesiani in Terra Santa. Il progetto di Cremisan ha ottenuto l’appoggio di numerosi enologi e cantine in Italia. Non rimane che sperare che la “Stella di Betlemme” – che è anche il nome di una delle etichette – continui a brillare ancora tanti anni.

L’amaro della Certosa

Sicuramente degne di menzione, anche se qui si sale di gradazione alcolica, sono le Gocce Imperiali tipiche della Certosa di Pavia e degli altri monasteri cistercensi italiani. Oltre ad acqua, alcol ed erbe uno degli ingredienti fondamentali è lo zafferano da cui deriva la classica colorazione gialla. Vanno tassativamente diluite in acqua, perché la gradazione alcolica è pericolosamente vicina a quella dell’etanolo.

Avrà pure avuto ragione Rino Gaetano, e forse “nell’amaro benedettino non sta il segreto della felicità” ma ho la sensazione che tutti questi prodotti del cielo qualche proprietà benefica debbano averla.

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