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Luca Fantin: in Giappone dove il branzino si mangia solo a ottobre

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Luca Fantin: in Giappone dove il branzino si mangia solo a ottobre

Sono sempre più numerosi i cuochi tricolori che hanno aperto recentemente o stanno per aprire locali in Oriente. Pochi in verità vanno oltre qualche presenza periodica, due soli hanno deciso che lì avrebbero scritte pagine importanti: Umberto Bombana e Luca Fantin. Due generazioni diverse (classe ’63 e classe ’79), due storie di vita differenti e due modi di cucinare altrettanto validi ma dettati da esigenze diverse. Bombana, arrivato nel ’93 a Hong Kong ha creato una “sua” catena (la nota Otto e Mezzo, in omaggio a Fellini) e mette a tavola centinaia di persone tra il tre stelle Michelin e gli altri due locali a Shanghai e Pechino.  Fantin dal 2009 è executive chef de Il Ristorante Luca Fantin nel Bulgari Ginza Tower, uno dei locali cult della capitale giapponese: cucina italiana – la sola stellata Michelin a Tokyo tra le 161 singole  – per una quarantina di persone, in un ambiente esclusivo al nono piano del grattacielo, pronte a sborsare 18mila e 22mila yen (più o meno 130 e 160 euro) per i menu degustazione dello chef trevigiano che è stato protagonista dell’ultimo evento di Epicurea 2015, ospitato dalla Casa madre a Milano: un “quattro mani” con il resident chef Roberto Di Pinto. Una buona occasione per fare una chiacchierata con lui.

Luca Fantin e Roberto Di Pinto al Bulgari Hotel

Colpevolmente anche molti addetti ai lavori non sanno la sua storia. Raccontiamola in sintesi

Non sono cresciuto in un locale: mio padre era ferroviere, mia madre casalinga. E’ stata la nonna Anita a coinvolgermi in cucina. Così a 13 anni mi sono iscritto all’Alberghiero di Treviso. Dopo gli studi, le prime esperienze in zona: l’osteria Nea a Silea, il mio paese natale, e poi al Marcandole di Salgareda. Prima tappa importante, il Bersagliere di Goito che era un due stelle.

Poi Cracco e Marchesi, due miti

Un anno a Milano con Carlo: mi ha insegnato l’importanza dell’organizzazione. E un grande chef, ma anche un uomo che sa pianificare tutto con precisione e severità. Con il Maestro ho partecipato al suo impegno a Roma con l’Hostaria dell’Orso e il Quisisana a Capri. Esperienze interessanti.

Primo passaggio all’estero, la Spagna, nel periodo in cui la sua cucina era al top. Ricordi? 

Sono stato a Murcia e poi tre anni al Mugaritz di Andoni Luis Aduriz. Lì ho capito che l’eccellenza la si ottiene solo se si ragiona puntando in alto ancor prima di mettersi ai fornelli. A Errenteria è fondamentale presentarsi al lavoro puntuali, rasati, ben pettinati. E darsi da fare. Dalle cinque del mattino a mezzogiorno, nelle ore di tempo libero, si finiva spesso per passeggiare tra i boschi alla ricerca delle erbe: un impegno che poi con il tempo è diventato piacere.

A quel punto inizia a essere noto, visto che Beck la ingaggia come sous-chef…

La Pergola è un ristorante diverso da Mugartiz: entrambi ad altissimo livello ma nel primo si punta alla massima soddisfazione del cliente, nel secondo si fanno anche esperimenti. In questo senso, mi piace pensare di aver dato una mano a Heinz per creare nuovi piatti, moderni.

Ed eccoci al Giappone. Quale è stata la molla nel 2009?

Il consiglio di Stefano Baiocco, collega e amico, che mi disse che il Bulgari era interessato a un nuovo cuoco. Sono partito e ho deciso di restare là: il Paese è forte economicamente, hanno semrpe voglia di migliorare e poi c’è una grande cultura del cibo. La clientela giapponese – che poi è il 95% del ristorante – è attenta, sofisticata, spende tanto ma capisce il motivo. Ora sto molto bene, ho anche sposato una ragazza di Tokyo – Emi – che mi ha dato un figlio, Nicola.

All’inizio faceva cucina italiana con prodotti italiani. Poi ha cambiato linea, perché?

Semplice, non conoscevo il Giappone e cosa è in grado di dare a un cuoco. Dopo un paio di anni mi sono reso conto che potevo proporre la mia cucina servendomi quasi totalmente della materia prima locale e sicuramente è stata la svolta per me e il ristorante. Oggi, faccio arrivare a Tokyo solo il riso Carnaroli, l’olio extravergine e il Grana padano.

Cosa non sappiamo ancora del gusto giapponese per la cucina?

Non capiscono il salato, per loro è qualcosa non di cattivo ma di strano. Per esempio, quando faccio assaggiare un salame nostrano restano perplessi. Non sono ancora dei fenomeni nell’abbinamento cibo-vino ma impareranno. In compenso, sono abituati a una stagionalità che per noi è maniacale, pretendono – parlo ovviamente della clientela “da Bulgari” – il massimo nel momento migliore: da noi, il branzino si mangia solo a ottobre perché è il mese in cui è al top. Per non parlare della filosofia dei piatti diversi per ogni cibo e ogni stagione. Altro pianeta.

E’ vero che il minestrone è il suo signature dish?

Esatto, ma nella mia versione. E’ un brodo di sole verdure cotte 24 ore sottovuoto, poi 30 tipi di verdure diverse, alcune crude, altre come giardiniera, altre cotte, altre stracotte… Lo accompagno a una tisana alle erbe aromatiche.

C’è una forte componente vegetale nelle sue creazioni. Tendenza?

Sono sempre stato un grande amante delle verdure, quindi non è per seguire la moda. Poi se lo è, fa parte – per ora – del modo di pensare europeo. So che molti colleghi importanti stanno cercando una via tutta vegetale alla cucina, senza carni o pesce. Ma in Giappone è impossibile e anche qui mi sembra più giusto ampliare l’offerta senza schiacciare il resto, anche per ragioni commerciali.

Progetti a breve? L’Italia è sempre nel cuore?

Migliorare ancora il mio ristorante è la cosa più importante. Poi da sette mesi sto lavorando a un mio libro sugli ingredienti per realizzare cucina italiana, cercando e scoprendo sul territorio giapponese i prodotti, spesso di artigiani. E’ un po’ la mia storia da quando sono qui. L’Italia? Un giorno tornerò per mettere a frutto la mia esperienza ma per ora sto bene nel Bulgari Ginza Tower.

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