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Ciccio Sultano: porto a tavola mare, sole e vento

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Storie di eccellenza

Ciccio Sultano: porto a tavola mare, sole e vento

Il mare, il sole, il vento. La Sicilia potrebbe essere raccontata da mille storie che parlano di questi tre elementi. La Sicilia è mare, indiscutibilmente, è sole, inevitabilmente, è vento indubitabilmente. Per questo mare, sole e vento sono i tre elementi fondamentali della cucina di Ciccio Sultano, lui, che della Sicilia, è tra gli interpreti gastronomici principali. Il Duomo, il suo ristorante è a Ragusa Ibla, la parte bassa della città siciliana, la parte vecchia, lì dove la terra sembra quasi potersi specchiare nel mare e dove il mare rappresenta il ponte ideale per collegarsi a mille culture diverse, anche e soprattutto in termini di gastronomia.

«La cucina è fatta dal tempo. L’ umidità dell’aria, la temperatura. Da noi proprio mare, sole e vento. Sono ingredienti che non puoi pesare, che non puoi misurare, ma che incidono sulla qualità del lavoro che ognuno di noi è capace di fare. Incidono sulla qualità della materia prima, sui livelli di cottura, rendono più saporiti i nostri piatti. E’ questo che intendo quando parlo della mia cucina, quando dico che è una cucina di pancia, di testa, di cuore, molto siciliana, frammentata e sovrapposta».

In cosa si traduce il concetto di frammentazione e sovrapposizione?

Voglio dire che la mia cucina si frammenta in diverse idee e culture gastronomiche che hanno vissuto in Sicilia, ma che si sono rincorse anche nella mia vita. Ho viaggiato molto, mi sono confrontato con molte persone in giro per il mondo, mi sono rapportato agli anziani ed alle tradizioni della mia terra. Per questo quando lavoro ad un piatto non ho un limite nel togliere, ma nell’aggiungere. Mi piace sovrapporre, sperimentare e da più idee, a volte anche lontane da loro, faccio nascere una ricetta nuova. Ingredienti diversi che si completano in maniera ideale. Le mie ricette sono un po’ come la mia vita, sono un rincorrersi tra loro, hanno bisogno della stessa adrenalina di cui io ho sistematicamente necessità per andare avanti. In questo mi sento molto vicino al nostro vulcano, all’Etna: ho un forte senso di rispetto per me stesso, ma anche, a volte, di paura. Nel vulcano è insito il rischio, quel rischio su filo del quale mi muovo sistematicamente, un rischio che mi da energia e forza.

Il rischio è anche quello di un confronto continuo con una crisi economica che fa fatica a passare?

Quello che abbiamo alle nostre spalle è stato un periodo terribile. Io non sono un economista, non sono esperto d’affari e di finanza, ma, quando nel settembre del 2008, sentii del fallimento di Lehman Brother, la banca d’affari americana, compresi subito che ci saremmo trovati ad affrontare difficoltà che non potevamo neanche immaginare. Quella che ci ha colpito è stata una crisi di fiducia che ha portato tutti a lesinare sulle spese. Non si risparmiava per reale necessità, lo si faceva per paura. Già nell’autunno di quell’anno il crollo delle presenze al ristorante è stato evidentissimo, ma è stato nei dodici mesi successivi che ci siamo dovuti confrontare con la crisi più nera. Eppure l’abbiamo superata, ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo innovato, reinterpretato la nostra attività.
Abbiamo cambiato persino i nostri menù, creando dei full-inclusive, in cui il prezzo era fisso, bevande comprese; abbiamo pensato a dei rapid-lunch e ad altre iniziative che ci hanno permesso di mantenerci a galla. Abbiamo investito ancora di più sulla nostra attività, sulle nostre capacità, su noi stessi e, grazie a tutto questo, siamo riusciti a superare quel periodo “Malvagio”.

Ma dalle difficoltà si può imparare, si può migliorare?

Non c’è alcun dubbio. In quel frangente ho compreso che era necessario interagire con il territorio più di quanto non stessi già facendo. Era fondamentale interagire con le persone, con i produttori. Ho capito che in modo o nell’altro tutti dovevano diventare miei clienti. Ed oggi mi sento più tranquillo, tanto da aver fatto un altro passo importante che mi ha portato ad inaugurare da poco una nuova struttura: “I Banchi”. E’ un nuovo progetto, un nuovo fomat gastronomico, a due passi dal Duomo. Si tratta di un panificio con cucina, uno spazio di 450 metri quadrati, giovane, dinamico, smart, spiritoso in cui vendiamo pane e prodotti tipici locali da banco.
Il richiamo principale è proprio quello del pane, con formati grandi e grani selezionati, ma non solo. Da noi si può fare colazione, mangiando tra l’altro la granita di gelsi con panna, inzuppata con la brioche o con il pane stesso appena sfornato. A pranzo ci si può mangiucchiare, e la sera cenare. Abbiamo aperto da poco ma siamo estremamente soddisfatti di come stanno andando le cose.

E le stelle? Quando sono state determinanti le due stelle con le quali la Michelin vi ha premiato?

Negherei l’evidenza se dicessi che non sono state importanti. I riconoscimenti nel nostro settore rappresentano la differenza tra la notorietà e l’anonimato. Le stelle fanno rumore, fanno comunicazione, creano un effetto alone da cui si fa fatica a prescindere. Tuttavia, prima delle stelle ci sono i clienti, perché se non hai i clienti che vengono a mangiare da te, delle stelle non sai che fartene. E non sono le stelle o almeno non solo quelle a spingere le persone a frequentare un ristorante. Noi non siamo come le aziende vinicole che possono spedire ovunque un bancale di bottiglie di loro produzione o che con cravatta e giacca aprendo una bottiglia possono raccontare la loro storia, quella delle loro campagne, quella del sole che ha addolcito l’uva che hanno utilizzato. Noi, invece, dobbiamo convincere la gente a venire da noi e, quando un cliente varca la soglia della nostra porta bisogna essere felici: quella che sta accadendo è una magia. Ogni cliente rappresenta una piccola vittoria ed è fondamentale occuparsene con cura perché possa tornare almeno un’altra volta e possa mandarne di nuovi.

L’importanza del rapporto con i clienti è qualcosa che si apprende molto presto?

Negli anni ’80 lavoravo a Vittoria ed il mio titolare di allora, si chiamava Arturo. Mi spiegò che avevo “tre metri di tempo” per capire la psicologia del cliente che stava entrando nel nostro locale. I tre metri erano lo spazio che li separava dalla soglia d’ingresso al bancone al quale venivano serviti. Quei tre metri erano fondamentali. Questa lezione mi aiutato anche al Duomo. Comprendere i clienti mi ha aiutato anche nel mio percorso personale nella trasformazione che ho scelto d’imprimere al mio modo di cucinare: ogni volta che modificavo qualcosa, nel tempo cambiavano anche le persone che venivano a mangiare da me, ed è stata una crescita costante che si autoalimentava. Io sono un autodidatta. Ho fatto prove, ho fatto mie le esperienze che porto dentro, quelle da giovanissimo, nella pasticceria in cui ho cominciato a lavorare a 13 anni, poi quelle nella spaghetteria a Marina di Ragusa, dove sono stato folgorato dalla voglia di fare il cuoco. Sono stato in Germania, a Monaco di Baviera, poi negli Stati Uniti dove ho lavorato con Lidia Bastianich a New York alla Felidia. Era appena nata mia figlia e mi ero sposato da poco.

Quelle esperienze sono servite a fare il grande salto?

Dopo un po’ ho avvertito la necessità di tornare nella mia terra, in quella che sentivo la mia vera casa e creare qualcosa di mio. Mi sentivo pronto, pronto per dare spazio alla mia inventiva, al fuoco sacro che sentivo ardere dentro di me. Così a 29 anni mi sono buttato nell’avventura del Duomo e… siamo ancora qui, con la stessa voglia di allora.

E gli elementi che caratterizzano la forza del nostro paese secondo te quali sono?

Sono tre gli elementi a cui sono molto affezionato: l’olio, il sale ed il grano. Sono anche i simboli che hanno identificato l’uomo nel commercio, nell’amore e nelle necessità. Il sale è una delle poche sostanze naturali che conserva e, proprio per questo, è sempre stato sinonimo di ricchezza; il grano è sostanza, è vita, è mangiare, per noi è il pane, è la pasta; l’olio è il fluido magico in cui navigano tutti i nostri ingredienti, quelli della cucina mediterranea. Per me sono fondamentali. Sono i pilastri su cui poggia la mia cucina, i mattoni da cui partire per costruire o ricostruire.

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