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In attesa dello sharing economy act decide il Comune

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Social eating

In attesa dello sharing economy act decide il Comune

Chi ha paura della sharing economy? L’economia della condivisione, che promuove forme di consumo più consapevoli basate sul riuso invece che sull’acquisto e sull’accesso piuttosto che sulla proprietà, comincia a dar fastidio ai mercati tradizionali.  Sfugge alla crisi: crea opportunità di sviluppo economico e accelera l’innovazione, con un giro d’affari che supera i 15 miliardi di dollari. Nel food ha generato un trend tutto nuovo, quello del social eating e degli home restaurant: condividere cibo genuino fra sconosciuti dopo aver  selezionato, prenotato e pagato, attraverso una piattaforma web, la cena o il pranzo al quale si intende partecipare. Per molti è solo pirateria.

Una petizione per l’home food

Meno di un mese fa una risoluzione del ministero dello Sviluppo economico ha equiparato le nuove attività a quelle per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande. Scattano quindi oneri infiniti. E si temono sanzioni. Varrebbero le  disposizioni di cui all’articolo 64, comma 7, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59: presentazione della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) e piano Haccp, con installazione di impianti e strutture a norma. Una petizione, però, chiede l’approvazione di una legge per fissare regole chiare (esiste già un ddl in materia), considerando l’home food  «un’attività volta a mantenere viva non soltanto l’ospitalità tipica del luogo, ma anche le tradizioni culinarie, attraverso antiche ricette che caratterizzano la singola città, senza trascurare gli aspetti di natura sociologica insiti nella convivialità domestica». Molte associazioni si stanno mobilitando: qualche giorno fa Altroconsumo ha presentato ai gruppi parlamentari di Montecitorio il  Manifesto per una sharing economy sostenibile e rispettosa dei diritti dei consumatori.

Il Manifesto di Altroconsumo

«Esiste un diritto ad innovare e deve essere promosso e garantito ai cittadini dalle istituzioni e dallo Stato», si legge nel documento. Chiamati a firmare i principali protagonisti del nuovo mercato, che «si impegnano ad adottare uno o più strumenti di autoregolamentazione che garantiscano, nei diversi settori, regole chiare circa i diritti di utenti e consumatori nella duplice veste di fornitori e fruitori di beni e servizi anche attraverso la collaborazione tra consumatori e piattaforme per l’eliminazione di eventuali pratiche commerciali scorrette e clausole vessatorie». Alla Camera, in  rappresentanza di tutti i player  c’era anche Gnammo, prima piattaforma italiana per il social eating, insieme alle startup Uber, Zoopa, Cortilia, Aibnb, Starteed.

“Gli italiani vogliono norme anche quando non servono”

Se all’estero, in molti paesi,  le strategie digitali sono state poste al centro della programmazione politica,  in Italia la legislazione è molto più lenta dell’evoluzione tecnologica.  «Spesso è  il futuro che fa paura e i governi si scontrano inevitabilmente con il passato  – spiega  l’avvocato Guido Scorza, esperto di diritto e politica dell’innovazione –  la nostra peculiarità, tutta italiana, è  di richiedere interventi normativi anche quando non serve o di ricondurre le pratiche di mercato alle discipline esistenti». Che di solito si riferiscono invece a contesti diversi, superati, rispetto a quelli attuali.  Non sono tutti d’accordo: per Confcommercio l’home restaurant è una pratica irregolare, una forma di concorrenza sleale.  «E’ un pericolo per la salute dei consumatori e una frode al fisco».

Aspettando lo Sharing economy act

Quindi, se prima una cena a domicilio, realizzata con il contributo dei partecipanti alla spesa, non era considerata un’attività commerciale (nessuna  autorizzazione sanitaria richiesta e nessun obbligo fiscale fino ad un massimo lordo di 5.000 euro annui), ora, dopo il parere del Ministero, aumenta la confusione: spetta ai Comuni interpretare le indicazioni contenute nella risoluzione. Ma si attende una normativa definitiva. In ogni caso, per svolgere l’attività,  è preferibile agganciarsi sempre a una piattaforma social che gestisca direttamente i flussi di pagamento:  il team  incassa  e gira ai padroni di casa che organizzano l’evento la quota di competenza al netto di una trattenuta (tra il 10 e il 15% ) e delle spese di transazione.  «Dobbiamo essere consapevoli che possiamo rischiare una multa, a seconda di come il Comune in cui operiamo interpreterà il parere del ministero – avverte l’avvocato Scorza – almeno fino a quando un definitivo  intervento normativo, a questo punto necessario,  regolerà il rapporto tra utenti e fornitori di servizi. Lo stiamo aspettando, sarà lo sharing economy act».

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