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Quando il pomodoro è finito nella "Storia lussuriosa dei cibi…

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Quando il pomodoro è finito nella "Storia lussuriosa dei cibi proibiti"...

Poteva essere rosso o giallo, poteva richiamare l’oro o la passione, e quindi lo chiamavano pomo d’oro, oppure pomo d’amore, o pomo del paradiso, ma poi anche pesca selvatica di Galeno a pomo del Perú. Quando arriva in Europa e in Italia (1548), il pomodoro suscita un po’ di curiosità e parecchia diffidenza. Non assomiglia a niente che esistesse già, tipo i fagioli che sono simili ai fagioli all’occhio, per cui si cominciano a mangiare abbastanza presto. E anche quando, superate le principali remore, si cominciano a mettere in pentola i pomodori (il primo ricettario che li comprende è del 1690) risulteranno abbastanza inutili: che senso ha mangiare una cosa che non sazia, che non riempie la pancia? In una società perennemente alle prese con la fame, il mais e la patata cominceranno a essere consumati dopo alcune carestie del Sei-Settecento. Niente di tutto questo vale per il pomodoro: per arrivare a trovarlo sulla pasta bisogna addirittura aspettare il 1839, quando il letterato napoletano Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, pubblica la Cucina casareccia in dialetto napoletano, dove fornisce pure la ricetta dei vermicelli con la pummadora. È la prima volta di un abbinamento destinato a un grande avvenire; in precedenza i maccheroni si mangiavano con burro e cacio grattugiato.

Il frutto del Paradiso

Il pomodoro arriva in Europa attraverso la Spagna, dove conserva quasi intatto il suo nome azteco: tomatl, che diventa tomate. Quando giunge in Italia si diffonde nelle zone di influenza spagnola, ma cambia nome (salvo in Sardegna). Perché lo si chiami pomodoro è abbastanza chiaro, qualora si pensi alla versione gialla (oggi diventata piuttosto rara). Per spiegare come mai la versione rossa diventi pomo del paradiso o pomo dell’amore (in francese lo si chiamava pomme d’amour, ai nostri giorni invece una mela caramellata) bisogna prenderla un po’ più alla larga.

Nel medioevo si riteneva che il paradiso si trovasse a sud dell’Asia. Quando Cristoforo Colombo salpa per quello che lui pensava fosse l’oriente, si porta dietro un marinaio in grado di parlare aramaico. Si riteneva che in paradiso si parlasse quella lingua, quindi non si sa mai che finisse fuori rotta e avesse bisogno di scambiare due parole con san Pietro. Quando torna in Europa, i frutti, gli animali e le persone che mostra alla corte di Spagna erano ritenuti orientali (non si dimentichi che per tutto il Cinquecento si pensava che lo scopritore del nuovo mondo fosse stato Amerigo Vespucci, infatti gli è stato dato il nome di America e non di Colombia).

Un pomo scandaloso

Per questo motivo il mais viene chiamato granturco: i turchi ottomani erano i mediatori tra l’oriente asiatico e l’Europa cristiana. Ma ora pensate a un pomodoro tagliato a metà: sfacciatamente rosso, trasuda di succhi allusivi; noi ci vediamo un alimento pronto per finire nell’insalata, a fine medioevo lo consideravano una rappresentazione dell’organo sessuale femminile. Quindi un frutto peccaminoso, e il passo fino a ritenerlo il frutto del peccato dev’essere stato breve assai. Come scrive Stuart Lee Allen nel suo libro “Nel giardino del diavolo. Storia lussuriosa dei cibi proibiti”, dev’essere proprio quello lo scandaloso pomo dell’amore profano, «morbido, delizioso, che invita il malcapitato ad affondare i denti nella sua pelle scarlatta e nella sua polpa sensuale, per farne uscire tutti gli umori. Immorale, lascivo e decisamente pagano.» Arrivato direttamente dall’eden, diventa il pomo d’amore (profano) o il pomo del paradiso. Non a caso ancor oggi il pomodoro si chiama paradicsom in ungherese, paradižnik in sloveno, paradajz in serbo. In tedesco pomodoro è die Tomate, ma nella variante austriaca diventa der Paradeiser, in particolar modo a Vienna e nei Länder sudorientali (Stiria e Carinzia).

La lunga strada verso lo spaghetto

Il pomodoro esercita un misto di fascino e di repulsione. Il primo a parlare di salsa di pomodoro è un marchigiano, Antonio Latini, che finisce a fare il cuoco nelle cucine vicereali, a Napoli, dopo esser transitato per Roma. Nel libro in cui riassume le sue conoscenze culinarie, “Lo scalco alla moderna”, pubblicato nel 1696 fornisce tre ricette a base di pomodoro e segna l’entrata di questo ingrediente nella gastronomia europea. Si possono individuare sia l’antenato della salsa per i maccheroni, sia quello del ragù napoletano. Ma in quel tempo la salsa di pomodoro serviva per accompagnare la carne, un po’ come sarebbe successo, qualche secolo dopo per il ketchup americano (che in origine – a metà Ottocento – risulta molto simile alla salsa di pomodoro dei ricettari italiani, salvo l’aggiunta di zucchero).

A mano a mano che si procede nel Settecento si trovano nei ricettari sempre più tracce di pomodori, ma non senza contrasti. L’abate Pietro Chiari, gesuita e moralista cattolico, verso la metà del XVIII secolo, inserisce i pomodori tra i cibi riprovevoli. «Non c’è niente di più malefico dell’abitudine (sempre crescente) di fare uso di cibi ricoperti di droghe provenienti dalle Americhe.»

Simbolo della rivoluzione di Gian Burrasca

I napoletani, in ogni caso non baderanno più di tanto agli anatemi eccelsiastici e il frutto proibito entra con sempre maggior decisione nei loro ricettari. Il consumo, intanto, si allarga pian piano all’Italia centrale. Luigi Bicchierai, detto Pennino, dal 1812 al 1873 è titolare della locanda al Ponte, di Lastra a Signa, vicino a Firenze. Ha lasciato un diario e molte ricette, fortunosamente ritrovati in una cassa abbandonata in una vecchia casa. Si tratta dell’unico documento del genere giunto fino a noi. La prima ricetta, datata marzo 1812, è quella del “sugo della miseria”, una sorta di ragù fatto con i pomodori e gli avanzi di carne lessa. Non c’è alcun indizio che venisse usato sui maccheroni, l’indicazione che Pennino dà è: «Il sugo non è un santo, ma dove casca fa miracoli.» E sempre in Toscana, nel 1911, lo scrittore Vamba conferirà gloria imperitura alla pappa al pomodoro, simbolo della rivoluzione di Gian Burrasca.

A Trieste c’è chi lo vede come il cibo dell’invasore

Il matrimonio tra pasta e salsa si celebra a Napoli nel 1839 nel già citato ricettario di Ippolito Cavalcanti. Un matrimonio che pare funzionare benissimo ancor oggi, non ci sono segni di crisi tra la pasta e il suo rosso accompagnatore. Il cammino del pomodoro, a quel punto, è tutto in discesa. Ritorna in America nelle valigie di cartone degli emigranti italiani e gli spaghetti and meatballs (inesistenti in Italia) diventeranno il simbolo della cucina fusion italo-americana.

Nel 1918 crolla la monarchia asburgica, Trieste e i territori limitrofi, dopo essere stati austriaci per 536 anni, diventano italiani. Ma molti sudditi fedeli all’imperatorie vedono di cattivo occhio quelli che considerano invasori stranieri: a Grado il pescatore Nicolò Lugnan si rifiuterà sempre, fino alla sua morte avvenuta nel 1984, di mangiare i pomodori, in quanto simbolo di italianità.

Nei ricordi di Umberto Saba

Invece il pomodoro è accolto con entusiasmo da Umberto Saba. Negli anni Venti il giovane poeta triestino è alla Capponcina, la villa dannunziana alle porte di Firenze. Tempo dopo, Saba ricorderà: «Anche da noi a Trieste si mangiava l’estate, la pasta al pomodoro. Ma la salsa tingeva appena del suo bel colore le tagliatelle o gli spaghetti. Qui invece copriva fino agli orli il piatto, che un cameriere – anche lui celebre, si chiamava Rocco Pesce – recava, severo, in giro. Il piatto sembrava una rossa bandiera trionfale, e il sapore della minestra, così suntuosamente condita, era eccellente. Seppi poi che in tutto il meridione d’Italia la pasta al pomodoro si serviva in quel modo, e che il cuoco di Gabriele D’Annunzio, era, egli pure, un meridionale. A me parve, allora cosa nuova. Pensai ad un’invenzione dell’Immaginifico; rammento anche di aver fatto un’associazione mentale con una sua poesia.» Qualche anno più tardi, in un pomeriggio invernale raggelato dalle sferzate di bora, ricorda quella pasta con la sua compagna: «trovai, sulla tavola imbandita nel caldo accogliente della cucina la stessa purpurea meraviglia.

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